Di calcio lo siamo già. Bene. Ora si può diventarlo anche negli scacchi.
Come in ogni cosa, bisognerebbe innanzitutto volerlo, senza tentennamenti e senza confinare il progetto nella sfera dei sogni di mezza estate. Credo che se un giovane italiano dotato volesse provare a entrare nei primi dieci, o almeno nei primi cento del mondo, dovrebbe “solo” fare quello che fanno altri suoi coetanei che hanno raggiunto brillanti risultati prima dei quindici anni: mettere gli scacchi davvero al centro della propria vita e puntare, come primo gradino, a diventare grande maestro non più tardi dei venti.
Si tratta di una scelta molto impegnativa, per la quale a quell’età è indispensabile l’appoggio della famiglia. Sinceramente, se mio figlio giocasse a scacchi e fosse già più o meno maestro internazionale, ci penserei cento volte prima di incoraggiarlo in tal senso. Tuttavia apprezzo molto la chiarezza della scelta compiuta, per esempio, dall’italo-americano Fabiano Caruana e dai suoi genitori. In un’intervista pubblicata nella nostra rivista di aprile, questo maestro internazionale, non ancora quattordicenne, spiegava: “Lasciare la scuola è stata una decisione difficile e il solo modo per giustificarla è quello di giocare seriamente” … e allenarsi per non meno di 40 ore alla settimana!
Del resto anche i fortunati che sono diventati campioni del mondo di calcio, o di qualsiasi altra disciplina, vi si sono buttati senza salvagente fin da quando erano bambini. Purtroppo viviamo nell’epoca dell’iper-specializzazione e se si vuole raggiungere l’eccellenza bisogna mettere in conto questo
e altro. Certe scelte di vita vanno prese in solitudine, non si può pretendere che altri, come per esempio la Federazione, “garantiscano” sbocchi professionali o sportivi. Non succede in nessun mestiere.
È un discorso che può sembrare duro, ma troppe volte ho sentito scacchisti recriminare per i mancati aiuti e incoraggiamenti ricevuti in gioventù, dopo aver visto i loro coetanei stranieri, non superiori in quanto a talento, raggiungere traguardi ambiziosi. Meglio una rinuncia serena e consapevole.
D’altro canto non ho mai visto maestri che siano rimasti disoccupati “per colpa” degli scacchi. Al contrario, in molti casi l’eccellenza raggiunta nella nostra disciplina è risultata un utile fattore di promozione sociale. E non citatemi i casi (per altro non più numerosi della media generale) di scacchisti famosi “finiti male” – benché io abbia un debole per le storie romantiche, credo che chi finisce col scriverle sulla propria pelle è perché non può fare a meno di farlo, qualsiasi vita decida di vivere. Come quella di Alexander Wojtkiewicz che leggiamo in questo numero.
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