Alcuni recenti episodi mi hanno portato a riflettere su
un argomento vecchio quasi quanto gli scacchi: come
valorizzare i tornei sul piano commerciale al fine di
consentire una giusta remunerazione dei giocatori. Ecco i
fatti: ai recenti campionati europei di Istanbul, validi
come qualificazione a non si sa più quale campionato del
mondo, molti grandi maestri delle ormai esangui
federazioni scacchistiche dell'est hanno dovuto pagarsi
le spese di viaggio e soggiorno, spendendo per il solo
albergo circa 1500 euro a testa. Ciò ha trasformato la
gara in una sorta di lotteria (il montepremi ammontava a
circa 180.000 euro nel torneo assoluto e circa 40.000 nel
femminile) provocando una serie di proteste e
recriminazioni. I giocatori hanno accusato
l'organizzazione di incamerare una quota dei ricavi
alberghieri, l'organizzazione ha candidamente replicato
che quella quota era a dir poco indispensabile per far
quadrare i conti della manifestazione, dato che le
sponsorizzazioni reperite non coprivano neppure il 50%
del montepremi, senza contare tutti i costi aggiuntivi.
L'associazione delle federazioni scacchistiche europee,
chiamata in causa in quanto ente che ha la titolarità
del campionato continentale, precisava che quella di
Istanbul era comunque l'unica candidatura pervenuta e che
in questo scenario i grandi maestri dovevano guardare in
faccia la realtà ed eventualmente rivolgere le loro
istanze alle rispettive federazioni nazionali, incapaci
perfino di spesare i propri rappresentanti nel torneo
individuale più importante dell'anno. Poche settimane
dopo l'organizzatore di un buon torneo di 17ª categoria,
dotato di un budget complessivo di 250.000 euro,
lamentava che i giocatori professionisti non sarebbero
consapevoli del loro reale valore commerciale,
aggiungendo che per gli scacchi il più delle volte si
dovrebbe parlare di mecenati piuttosto che di sponsor con
un adeguato pubblicitario (ciò a dispetto dell'impatto
mediatico relativamente buono ottenuto dal suo torneo!).
Sullo sfondo la triste vicenda dei campionati del mondo:
il match Ponomariov-Kasparov è definitivamente
naufragato, mentre pare che uno degli ostacoli
all'organizzazione del match Kramnik-Leko sia il milione
di euro al di sotto del quale il campione russo si
rifiuta di mettere in palio il suo titolo ufficioso.
D'altro canto i campionati della Fide dell'ultimo
decennio sono dipesi principalmente dai finanziamenti a
fondo perduto del discusso presidente Kirsan Ilyumzhinov.
Bisogna dunque concludere che gli eventi scacchistici
sono sostanzialmente privi di valore? I vari tentativi di
trasmettere le partite in diretta televisiva hanno
dimostrato che gli scacchi non si prestano a questo tipo
di "spettacolarizzazione", se non per qualche
rapidissimo spezzone di partite a cadenza veloce. Il
problema vero è che in realtà le partite dei grandi
maestri hanno un vasto pubblico planetario, abituato da
sempre ad essere spettatore appassionato e fedele, ma non
pagante: le partite vengono pubblicate liberamente su
riviste, giornali e siti internet e confluiscono
altrettanto liberamente nei database su CDrom. Tutto ciò
è molto positivo per la diffusione della conoscenza
scacchistica, ma è anche, se vogliamo essere onesti ed
obiettivi, la causa vera della crisi del professionismo
scacchistico. È un fatto che chi pubblica le partite di
scacchi ne trae un utile mediamente superiore a chi le
produce!
Purtroppo il problema del copyright sulle partite,
sollevato quarant'anni fa da Robert Fischer, ma anche da
altri meno celebri prima e dopo di lui, è allo stato dei
fatti poco più che un'utopia. Ma sono convinto che gli
scacchisti non riusciranno neppure a mettere a fuoco il
concetto del loro "valore commerciale" fino a
quando le partite non avranno un prezzo, come avviene in
qualsiasi altra disciplina agonistica.
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